mercoledì 6 novembre 2013

La Gabbia

Un mio piccolissimo racconto nato da alcune suggestioni personali...
(E se riuscite a trovarci riferimenti a cose, persone o fatti realmente accaduti, beh, qualche domanda sulla vostra vita dovreste farvela... )

LA GABBIA

Sfinito dal lungo viaggio e con i primi segni della sonnolenza che iniziavano a manifestarsi, decisi di accostare l’auto in un piazzale sterrato e pieno di fango per riposarmi un po’. 
Mentre fermavo l’auto iniziò a scendere le prime gocce di pioggia. 
Era tutto il giorno che minacciava acqua e, pensai, quello era il momento buono per le nuvole grigie e imponenti di scaricare tutta la loro rabbia. 
Il ticchettio aritmico dell’acqua sulla carrozzeria dell’auto e le gocce che si rincorrevano senza sosta sui finestrini e il parabrezza, mi conciliarono il sonno e ben presto mi  addormentai. 
Passai così del tempo nel remoto e oscuro mondo dei sogni, quello profondo, ancestrale che arresta i pensieri incessanti della mente e ti fa adagiare su una infinita coltre di nembi ovattati che non lasciano alcun ricordo di se e delle visioni che portano. 
Al mio risveglio l’alba stava ormai sorgendo, e il temporale si stava estinguendo completamente, scivolando lontano, sospinto dalle invisibili correnti d’aria del cielo. 
Per sgranchirmi un po’ le gambe e la schiena, irrigidite dalla scomodo posizione in cui mi ero addormentato, decisi di scendere di macchina e fare quattro passi prima di riprendere il viaggio. 
Mi accorsi che il piazzale dove mi ero fermato la notte precedente era in realtà un parcheggio delimitato da un lato da una piccola trattoria e dall’altro da un oasi di ricovero per uccelli feriti o malati. 
Mi incamminai in quella direzione e superata una cancellata di legno, lasciata aperta, con il grosso logo in plastica dell’associazione ormai mezzo scolorito, mi ritrovai di fronte una piccola costruzione malandata con il tetto a cupola, che intuii servisse da ambulatorio veterinario. 
Bussai alla porta, sperando vi fosse qualcuno per poter lasciare un offerta all’associazione che si occupava di quei poveri animali sfortunati, ma nessuno venne ad aprirmi. 
Così girai su i tacchi, un po’ deluso, e osservai l’ambiente. 



Una leggera bruma scivolava come fumo sul terreno, gli alberi gocciolavano ancora generando pozzanghere e fanghiglia e su tutto prevaleva un forte odore di muschio e umidità. Un vialetto tra due alte siepi portava a delle grosse gabbie, dove venivano tenuti sotto controllo i pennuti in via di guarigione e da dove giungevano sempre più alte le strida, e ogni altro genere di richiamo possono emettere gli uccelli. 
Mi guardai attorno, e vedendo che non c’era anima viva, la curiosità mi spinse in quella direzione. Mi trovai ben presto di fronte ad un recinto dove erano chiuse diverse dozzine di uccelli acquatici di diversi genere e grandezza. 
Vi erano anatre e oche, confusionari e aggressive, folaghe, un ibis ferito, silenzioso e timido che sostava ai lati di un piccolo e sporco laghetto artificiale, e diversi gabbiani reali, alcuni feriti alle ali e alle zampe, che sembravano spadroneggiare su molti dei loro coinquilini. La confusione era enorme e aumentò quando le oche mi corsero incontro con i loro colli protesi e i becchi spalancati in cui si intravedeva la piccola lingua triangolare, evidentemente pensando avessi portato loro del cibo. 
Più avanti il recinto lasciava spazio a due grandi gabbie rugginose e impregnate di umido. 
In un erano presenti due grandi pellicani che riposavano stancamente l’uno fianco all'altro vicino ad una bacinella d’acqua, tra strati di guano maleodorante. 
Nell'altra un poco più piccola, diversi piccoli rapaci notturni erano appollaiati su i rami spogli di un alberello rinsecchito. Rimasi un po’ sorpreso quando mi accorsi che nel lato opposto della gabbia, sotto una tettoia di plastica ricoperta da cumuli di aghi di pino ormai ammuffiti, qualcosa di grande si stava nascondendo. 
Era un gufo enorme, perfettamente mimetizzato nella penombra. 
Ebbi una sensazione strana, come un sentimento viscerale di ansia alla bocca dello stomaco, quando lo notai. 
Forse per le dimensioni che mi parevano spropositate, ma d'altronde non avevo mai visto dal vivo un animale del genere prima di quel momento. 
Forse per la sensazione inquietante di essere spiato, sorvegliato e quasi braccato come una preda. 
Fatto sta che distolsi lo sguardo e mi incamminai verso l’ultimo recinto e che si trovava proprio al termine del sentiero. 
Si trattava in realtà di una grande, immensa voliera chiusa con pannelli di legno verde, cui si poteva vedere all'interno solo attraverso una spioncino rettangolare, posizionato su una porta di ferro chiusa con grosso lucchetto. 
Mi avvicinai e guardai attraverso la fessura la cui visione era ulteriormente ridotta da una grata. 
Mi domandai per quale motivo vi fosse così tanta protezione e ostentata sicurezza per una normale gabbia di uccelli, ma osservando all'interno non notai assolutamente niente. 
Spostando lo sguardo in basso però notai qualcosa che iniziò a turbarmi. 
Per terra vidi i resti spolpati di un coniglio o qualcosa di molto simile, e grosse impronte a tre dite grandi quanto e più della mia mano. 
Poi un tanfo insopportabile mi giunse alle narici, seguito subito dopo da un mesto strisciare e un debole lamento. 
Preso da un interesse atavico di cui ancora adesso non mi do pace, mi posizionai meglio e mi alzai in punta di piedi per vedere in modo migliore. 
E fu allora che quel qualcosa che era nella voliera si mostrò in tutto il suo terrificante aspetto. Per prima cosa vidi le gigantesche ali membranose, artigliate e coperte da una leggera peluria. 
Poi, scivolando su di esse, mi si mostrò tutto il corpo di quell'essere immondo e indescrivibile. 
Era una figura chiaramente antropomorfa, con braccia e gambe simili a quelle umane, ma dotata di mani e piedi deformati e spaventosi. 
In particolare, ricordo di aver visto con crescente orrore le dita delle mani che erano solo tre, con mignolo e anulare uniti assieme a formare un unico orrendo prolungamento che si allungava fino a diventare l’osso delle ali da pipistrello. 
Bastava solo questo a farmi impazzire di orrore, ma quando l’essere si voltò verso di me, mostrandomi il suo volto deformato ma senza dubbio umano, non potei trattenere un urlo così agghiacciante che scatenò immediatamente il panico tra tutti gli uccelli presenti nelle altre gabbie. 
Scappai senza ritegno, con il respiro mozzato e un tremore incontrollabile che mi sconquassò per tutto il giorno. 
Perché con voce nasale e cavernosa quell'ibrido malefico guardandomi negli occhi mi disse:
aiutami! 

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